Cara amica, caro amico,
Benvenuta e benvenuto a Parlo anch’io!, la newsletter sull’italiano per bambine e bambini in contesti multilingui.
Ringrazio di cuore chi ultimamente mi ha scritto in privato, qui o su Instagram: sono sempre contenta di scoprire uno spiraglio della vita di chi riceve questa newsletter. Se hai voglia di contattarmi, ricordati che non mi fa altro che piacere e ti rispondo sempre presto e volentieri.
Oggi voglio condividere una riflessione che si è coagulata intorno ad una recente lettura (purtroppo al momento disponibile solo in inglese). La prossima troverai un consiglio di lettura vero e proprio (il libro che dà il titolo a questa puntata) e a fine luglio arriveranno idee di attività per piccolissimi. Agosto sarà dedicato a un riepilogo dell’anno trascorso e a settembre…arriva il primo compleanno di Parlo anch’io!
Buona lettura e a presto,
Anna
Una cosa serissima
Come accennavo la scorsa volta, ho appena trascorso una settimana a una delle più rinomate summer school americane, la Breaf Loaf Translators’ Conference. Devo dire che la mia esperienza ha confermato il buon nome della scuola.
Per una settimana non ho fatto altro che tradurre, “workshoppare” traduzioni mie e altrui, assistere a lezioni teoriche e/o pratiche, parlare con agenti, editor e editori. Come ormai mi capita di rado, per una settimana ho vissuto esclusivamente in un mondo adulto, intellettuale, stimolante, completamente diverso dalla mia quotidianità perennemente in bilico tra lavoro e lavoro di cura, adulti e bambini, tempo per me e tempo per tutti.
In quella stessa settimana ho letto Matrescence, di Lucy Jones,1 uscito da un annetto in UK e solo da qualche settimana in USA, che parla del concetto di matrescenza (cioè il “diventare madri”, coniato per parallelismo su adolescenza).2
In una delle pagine più poetiche, Jones scrive che (tutti i grassetti sono miei):
Nella tradizione femminista in cui ero stata cresciuta, la maternità e la cura erano state spogliate del loro valore, sminuite e screditate per poter far sì che alcune donne diventassero libere. La maternità era una servitù imbarazzante, non cool.
E prosegue:
Ma il lavoro di cura è hardcore. È questione di vita e di morte. È febbre e rischio e nascita e malattia e urla e amore e transfert [in senso psicanalitico]. È trasformazione e speranza. […] Pensavo che la maternità fosse solo cambiare pannolini e coccolare il bebè. Invece mi ha portato al limite del mio essere umana. Ha spinto all’estremo la mia capacità di empatia, mi ha messo alla prova intellettualmente, mi ha obbligato a fare domande e trovare risposte senza sosta, a riflettere sulla metafisica e sulle origini della materia. Ho imparato a parlare a esseri umani preverbali. Ad ascoltare e rispondere con suoni e rumori e respiro. Il linguaggio era tono di voce, colore della pelle, ritmo di movimento, espressione facciale, calore, attaccamento fisico, piccoli movimenti come sfregamento di occhi e orecchie o sguardo lontano. La lingua cresceva e cambiava di giorno in giorno. […]
Non mi ha sorpreso leggere che i ricercatori della University of Massachusetts hanno scoperto che la matrescenza è associata a un miglioramento di conoscenza, competenze e capacità […]. Niente di quanto avessi letto, ascoltato o visto prima di allora sulla maternità suggeriva che sarebbe stato un periodo creativo e intellettualmente stimolante.3
Perché riporto questa lunga citazione, cosa c’entra con la mia scuola di traduzione e soprattutto con questa newsletter?
Il fatto è che a Bread Loaf ho ricevuto molti complimenti sul mio lavoro di traduzione, ma non appena dicevo che lavoro anche con bambine e bambini, immediatamente il tono cambiava: “Oh, che carini!” e si cambiava subito argomento. Percepivo un certo disagio e soprattutto il desiderio di tornare a parlare di “cose serie”, come se i bambini fossero un appendice di carineria tipo cuccioli di Instagram.
Più avanti nel libro, Jones spiega che i cambiamenti osservati nel cervello dei neogenitori avvengono non sono nei genitori biologici, ma in tutte le persone che hanno a che fare con piccoli umani. La trasformazione neurologica è talmente significativa da essere paragonabile allo stravolgimento che avviene durante l’adolescenza (da qui, anche, il neologismo matrescenza).
In altre parole, stare a contatto con bambine e bambini stravolge nel profondo, genera in molte e molti una vera e propria crisi d’identità, ma sblocca anche l’accesso a risorse - fisiche, cognitive, emotive - che prima non sospettavamo nemmeno di possedere.
Prendersi cura di bambine e bambini è hardcore.
Eppure i genitori e i professionisti che lo fanno sono così spesso sminuiti, come se non facessero una cosa seria. Alza la mano se ti sei mai sentita chiamare “maestrina” o la tua scuola “scuolina” in riferimento al fatto che lavori con bambini e bambine. Come se il fatto stesso di avere a che fare coi piccoli infantilizzasse e rimpicciolisse, come se gli anni di studio e la pratica che coltiviamo ogni giorno non fossero essenziali e rilevanti, come se non fosse un lavoro impegnativo anche intellettualmente.
E ciò vale anche per chi vuole trasmettere una lingua minoritaria ai propri figli e/o insegnarla come LS/L2.
Nelle consulenze per famiglie e per docenti che ho svolto nelle ultime settimane, mi hanno colpito e affascinato la creatività, la voglia di mettersi in gioco e di imparare, il voler dare il massimo sia da parte di genitori che di docenti. Ho conosciuto persone che trascorrono ore e ore - non retribuite - cercando di individuare il percorso più adatto anche solo per un singolo studente, in scuole che magari non danno loro nemmeno l’accesso a internet o alla fotocopiatrice. O genitori che, per parafrasare ancora Jones, tra un pannolino e un biberon infilano il tempo di studiare le teorie dello sviluppo linguistico, i disturbi dell’apprendimento o qualsiasi altra informazione rilevante per la salute fisica e mentale della propria bambina.
Non lo dico per glorificare nessuno: si tratta di una realtà quotidiana, presente e discreta.
E non intendo nemmeno fare una classifica di cosa sia più importante, altrimenti cadiamo nel cliché opposto e pericolosissimo che “ Oh, è il lavoro più importante” e allora tu mamma stattene a casa preferibilmente zitta, sacrifica tutte le aspirazioni che hai avuto finora e sparisci dalla società fino ai 18 anni del pargolo.
Però, sì, ho vissuto un momento di dissonanza cognitiva nel rendermi conto che la parte che io considero la più impegnativa del mio lavoro non venga percepita come tale. Mi sono detta che è ora di cominciare ad affermare senza paura la serietà e l’importanza dello stare e del lavorare con bambine e bambini, sia quando si fanno grandi discorsi teorici sulle tappe dello sviluppo che - o soprattutto - quando si passa la serata a ritagliare schede per la lezione dell’indomani.
O no?
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Jones è una giornalista e scrittrice scientifica e questa sua formazione plasma il libro in maniera evidente: ci sono inaspettate metafore e similitudini ispirate al mondo naturale, in particolare quello microscopico, ma soprattutto mi ha colpito la sua volontà di allargare l’orizzonte della matrescenza dal microcosmo della famiglia nucleare al più vasto ecosistema dei rapporti socioeconomici globali.
Il termine matrescence (matrescenza) è stato coniato dall’antropologa Dana Raphael negli anni Settanta, ma solo di recente sta entrando anche nel linguaggio di chi si occupa da vicino del periodo perinatale (non è un termine di uso comune, ma forse dovrebbe diventarlo).
Traduzione mia. Ecco la citazione più estesa in originale : “In the feminist tradition with which I was raised, motherhood and caregiving had been divested of value, belittled and disparaged in order to let some women become free. Motherhood was embarrassing, uncool servitude […]. Care work is hardcore. It is life-and-death work. It is fevers and risk and birth and illness and screaming and love and transference. It is transformation and hope. It is quick thinking and deep patience. It is resentment and anger. It is sacrifice and gift. In these years of caregiving, our vulnerability becomes so stark. I thought mothering would just be changing diapers and cuddling a baby. Instead it took me to the edge of what it means to be human. It tested my empathy to the limit, it challenged me intellectually, it required me to answer and ask questions constantly, to consider metaphysics and the origins of matter. I learned how to talk to preverbal humans. How to listen and respond with sounds and noises and breath. The language was tone of voice, skin color, pace of movements, facial expression, heat, clinginess, small bodily movement like rubbing eyes or ears or faraway stare. The language grew and altered daily. I learned how to subtly reel in and out of a presence when the baby was learning something new […]. It didn’t surprise me to read that researchers at the University of Massachusetts found, in a synthesis of literature on working mothers, that matrescence was associated with enhanced knowledge, skills and capacity. […] Nothing that I had previously read, heard or watched about motherhood suggested that it would be an intellectually stimulating, creative time.” (pp. 250-52).
PS E perché non ti proponi tu a qualche CE per la traduzione...? 🙂
Ciao Anna. Commento a caldo, ma ho intenzione di tornare su quello che hai scritto oggi. Interessantissimo. Lo declino sulla mia attività di insegnante, che da qualche anno a questa parte (mi) descrivo nei termini di "professione di cura", e rilevo l'assoluta coerenza di tutto ciò che hai scritto